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Salvo Lombardo, performer, coreografo e regista siciliano, spinto dall’urgenza di conoscere e confrontarsi con altre esperienze formative si è spostato da giovanissimo a Roma, città che è oggi la base del suo gruppo di lavoro. Chiasma, fondata nel 2016, è la sua compagnia che sin dalla sua origine non è stata intesa in senso canonico. L’autore l’ha definita come una realtà policentrica ovvero che non ruota soltanto attorno ai suoi lavori. È una sorta di “casa con molte stanze” che accoglie più artisti al suo interno e ognuna di queste artiste ha una propria personale ricerca, i propri lavori, le proprie coreografie: un organismo tentacolare.

A proposito della tua compagnia, da dove viene il nome Chiasma?

Il chiasma o chiasmo, è tante cose… un concetto, una figura che ricorre in diversi ambiti: linguistico, scultoreo, artistico, clinico, e filosofico (da cui io l’ho preso). In tutti gli ambiti ha più o meno lo stesso significato, è come se fosse la traslitterazione di un simbolo grafico, la lettera “Chi” dell’alfabeto greco, che ha la forma di una X fondamentalmente. Quindi, il chiasma è quella specie di punto di congiunzione dove scaricano più pesi e più forze provenienti anche da spinte differenti, da punti differenti. È un po’ questo. Mi piaceva l’immagine di qualcosa che fosse un punto, ma non un punto fermo, un punto dove diverse forze, spinte, attitudini scaricano la loro forza, il loro peso.
C’è un filosofo, che si chiama Maurice Merleau-Ponty, il padre di quella che viene definita la filosofia della percezione, che definisce il chiasma in un modo molto complesso, molto interessante. Faccio una sintesi: lui dice che il chiasma è questa sorta di punto di congiunzione tra gli oggetti e i soggetti; per me questa cosa significava, come artista, mettermi in mezzo, ancora una volta, tra gli oggetti che possono essere qualsiasi cosa (anche gli spettacoli, in qualche modo) e i soggetti che invece sono tutto il sistema di relazioni, presenze, umanità che c’è intorno agli oggetti.

Qual è stato il tuo percorso di formazione e in che modo convive il tuo lavoro da performer con quello da coreografo?

Io ho un percorso di formazione molto eterogeneo, quindi forse questo ha caratterizzato anche la mia poetica, la mia identità come artista; mi definiscono un artista multimediale, ma io mi definisco un artista multimodale che ha, cioè, molti modi diversi per dire delle cose.
Ho iniziato da bambino a studiare danza sportiva, quindi un ambito completamente diverso rispetto a quello che oggi è la mia pratica, arrivando anche a livelli agonistici. Poi, da adolescente ho capito che mi interessava più porre il movimento al servizio di un’espressione artistica, spostarmi dalla dimensione agonistica e dell’esibizione. Allora, a 14 anni ho iniziato a studiare modern e alcune tecniche di quello che chiamiamo contemporaneo, ma è iniziato poi il mio grande amore, la mia fascinazione più grande per il teatro di parola e di regia, in particolare. Quindi, ho spostato tutte le mie attenzioni ed energie in quello, e dopo il liceo classico ho frequentato la scuola di arte drammatica del Teatro Stabile, quindi per attori e registi, qui a Catania. Ovviamente, portavo avanti in maniera autonoma la mia formazione come danzatore e quindi, appena ho finito questa scuola, l’inizio della mia vita professionale era versatile: toccava territori molto molto distanti tra loro, avevo iniziato a scoprire in quegli anni anche il teatro e la danza di ricerca, quindi un certo modo di concepire il teatro e la danza, diverso da quello che era nella mia formazione. Allo stesso tempo avevo già lavorato in compagnie classiche sia di teatro, di danza meno, o addirittura con generi molto distanti da me come il teatro musicale, il musical, l’operetta. Quindi avevo questa quantità di informazioni, si affacciavano delle abilità molto diverse nel mio zainetto, e a un certo punto ho semplicemente seguito il corso degli eventi finché poi, abbastanza presto, intorno ai 23 anni, ho lavorato tanto anche come attore e ho deciso che, qualsiasi cosa fosse la mia arte, volevo iniziare a pensarla come mia. Non mi vedevo più come interprete, avevo bisogno di iniziare a pensare ai miei spettacoli. Nel frattempo, avevo anche portato avanti un percorso parallelo di studi teorici all’università, quindi avevo acquisito anche altri strumenti da quel punto di vista e sviluppato una serie di altri interessi in autonomia, soprattutto dentro il campo delle arti visive e della videoarte in particolare.
Quindi, il mio percorso e anche i miei lavori sono un po’ la risultante di questo. Ad esempio, Excelsior e Amor sono lavori con un impianto multimediale importante, dove c’è un ingresso, un’irruzione della videoarte abbastanza forte. Quindi, pensarmi come performer ha significato prima di tutto valorizzare tutte queste possibilità e smettere di pensarmi qui come attore qui come danzatore, ma come un corpo performativo. Ho posto un focus sul corpo più che su una tecnica o un linguaggio in particolare. In effetti, in sintesi, io credo di essere un artista che si occupa di corpo e di corporeità.

Il tuo lavoro Sport fa parte della trilogia L’esemplare capovolto che a sua volta si ispira al trittico tardo-ottocentesco di Luigi Manzotti Gran Ballo Excelsior, AmoR e Sport. Come hai incontrato i tre balletti che ti hanno portato a iniziare il processo creativo?

Li ho conosciuti durante il mio percorso universitario studiando Estetica della danza accademica con Flavia Pappacena, un’importante studiosa di questioni legate alla danza classica che insegnava sia all’Accademia Nazionale di Danza sia alla Sapienza. In quest’ultima sono stato un suo studente et voilà! Così, mi sono imbattuto nel Gran Ballo Excelsior, che è anche il lavoro di ricostruzione più importante di questa docente. Il Gran Ballo Excelsior ha debuttato al Teatro alla Scala nel 1881, ottenendo un successo planetario decennale: il motivo per cui esistono hotel e case editrici con il nome Excelsior è dato dal fatto che al tempo si trattava di un fenomeno come potrebbe essere per noi Beyoncé, molto popolare. La storia di questo Ballo è stata fortunata fino all’avvento del fascismo, poi è stato ripreso alla fine degli anni ‘60 a Firenze per il Maggio Musicale Fiorentino da un altro coreografo, all’epoca considerato contemporaneo, Ugo Dell’Ara, che anche grazie all’aiuto delle ricostruzioni di Flavia Pappacena ha recuperato delle informazioni su questo Ballo; ci sono addirittura piccoli documenti video, girati nel 1913 (quindi decenni dopo il debutto), che ci mostrano più o meno com’era la coreografia originale di Manzotti. Al di là di questi cenni storici, quello che mi aveva colpito era il fatto che intanto parliamo di un Gran Ballo e non un balletto, quindi ricordo che iniziai a indagare sulla differenza tra i due generi, ed era abbastanza originale per me vedere quell’opera dentro una scia di balletti romantici a lui contemporanei. Per questioni tecniche e compositive, era affascinante cercare di capire cosa fosse il Gran Ballo, e lì ho scoperto che si tratta di una sorta di genitore di una serie di esperienze che poi nel ‘900 hanno preso le loro strade (compresa la commedia musicale, il musical e l’avanspettacolo, in qualche modo) perché coniugava la tecnica accademica con altre forme più “teatrali”, in particolare la pantomima. Poi si caratterizzava per un dispiego di mezzi importantissimo: cinquecento persone in scena, animali vivi, vegetazione… In realtà, a me aveva colpito il fatto che il Gran Ballo Excelsior rappresentava una certa idea di italianità, di nazionalismo, per quell’epoca di carattere particolarmente politico. Scavando, mi sono reso conto che una riflessione su questo forse mancava, quindi non mi interessava tanto omaggiare Excelsior quanto smontarne i pezzi e cercare di capire, con il mio linguaggio e con il mio sguardo di oggi, cosa potessero dirci.

Che significato ha per te questo spettacolo, o comunque la trilogia?

Per me, questo spettacolo è l’occasione per mettere insieme un certo tipo di discorso, più sulla sfera pubblica, più ampio, e un po’ anche una sorta di spinta ed esperienze provenienti dalla mia sfera privata. Il punto di congiunzione tra questi due ambiti è comunque il concetto di caduta, da pensare non solo come qualcosa da evitare, rimuovere, migliorare, ma da accogliere e con cui amoreggiare. Pur avendo prodotto – nel caso di Chiasma – tre opere molto diverse tra loro, la trilogia è nel suo insieme un modo per fare un punto, una specie di fotografia di questo presente, di questo tempo storico e di questo pezzo di mondo; il punto di vista da cui guardo le cose e dentro cui sono immerso è l’Occidente, fondamentalmente. Quindi Excelsior, Amor e Sport, sono in effetti tre lavori che in modo molto diverso hanno una radice comune, forse di indagine, che è la questione del potere, il concetto del potere, ovviamente declinato in modi molto diversi, personali anche, nel senso che trovano una declinazione specifica all’interno di ognuno di questi tre lavori: Excelsior voleva un po’ provare a capire come tutti i discorsi intorno alle identità culturali, di genere, ecc. sono veicolati da forme di potere, da esercizi di potere; Amor provava a dire la stessa cosa, per me, ma dal punto di vista della classicità, cioè come l’idea di classico, di tradizione, in qualche modo, pur dandoci l’impressione di sostenere la nostra progressione, il nostro acquisire nuove informazioni, è anche una sorta di gabbia che pretende di dire che la “O” col bicchiere si fa così e basta; invece, Sport un po’ chiude il discorso in effetti con la questione della caduta, cioè, è come se una volta presentate le radici del problema, Sport finalmente e letteralmente le capovolge, le ribalta, e ribalta anche i corpi. Negli altri lavori, l’assetto del corpo, il discorso sul corpo che mettevo in scena era un po’ più ordinato, ecco.

Sport ph. Eros Brancaleon

Che ruolo ha per te la danza nella società di oggi?

Il punto è che la danza per me è tante cose, quindi per risponderti ho bisogno di pensare alla danza in una maniera molto ampia, plurale, piena di possibilità. Perché se la pensassi in maniera chiusa, non avrebbe utilità per me. Allora, se ha un’utilità è perché la danza è uno degli strumenti che mi permette di parlare dei corpi, e i corpi sono la manifestazione più concreta, tangibile, di una serie di cose, discorsi, dinamiche sicuramente sociali. Quindi, la danza è uno degli strumenti per me per articolari un discorso sul performativo, sulla performance, perché poi fondamentalmente quello che mi interessa è approfondire il discorso della performance anche utilizzando codici specifici come quelli della danza. Quindi, la danza mi interessa e ha un ruolo importante nella misura in cui non riferisce solo informazioni proprie della danza ma si presta come mezzo e come ponte per aprire altre questioni, ecco. Non mi piace pensare che la mia danza parta da A e ritorni ad A, in una maniera chiusa in sé stessa.

a cura di Luca Occhipinti

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