Skip to main content

Non avere paura…
porta i tuoi pensieri sul RING

Sabato 25 novembre è stata portata in scena la performance ROCCO di Emio Greco e Pieter C. Scholten, compagnia ICK Dans Amsterdam, proposta all’interno della stagione Sp*rt! di Scenario Pubblico/Compagnia Zappalà Danza.

Questo spettacolo, visto per la prima volta nel 2011 e concepito nel 2008, è esemplare rottura del paradigma coreografico “canonico”. La scansione in round e la costruzione scenico-drammaturgica non didascalica, sono due esempi.

Rocco è uno spettacolo che appassiona poiché non è una performance di danza lineare che ha un semplice inizio e una fine, l’insieme è più complesso con parecchi cambi di scena mai casuali.
È uno spettacolo che fa ridere, riflettere e confondere.

Utilizziamo il termine confondere poiché lascia spiazzati a causa delle molteplici e diverse emozioni che suscita e dai numerosi cambiamenti inaspettati che avvengono durante tutto l’arco di tempo.

Dal punto di vista psicologico diversi studi hanno evidenziato come il fenomeno di ricerca di rassicurazione sia preponderante negli individui. Come sosteneva lo psicoanalista Bion, non appena vi è un cambiamento, esso provoca in noi resistenza e paura.

È un concetto, quello dell’inaspettato, che ritorna in questo spettacolo dal momento in cui, attraverso l’accensione e lo spegnimento delle luci, i cambiamenti di scena creati, stimolavano sempre nuovi setting mentali nel pubblico, lasciando da parte resistenza e paura, inducendo uno spaesamento tutto a beneficio della scena.

Uno degli obiettivi degli artisti difatti, stava nel fatto di non creare uno spettacolo con una storia lineare e riconoscibile a primo impatto.

Senza eccessi e cadute nel nonsense, le scene che si susseguono frenetiche offrono una velata critica alle interazioni sociali, in cui spesso insito si cela un senso di finzione.

Goffman, in La vita quotidiana come rappresentazione, considerava l’esistenza come una rappresentazione teatrale, in cui l’individuo è portato dalla società a compiere un “gioco di finzione”, essenziale per riuscire a adattarsi al mondo esterno.

In apertura, la performance firmata da Greco e Scholten, evidenzia attraverso l’uso delle maschere da parte di due dei quattro performer, una velata critica sociale, in cui i protagonisti non si sentono ancora capaci di essere chi dovrebbero essere di fronte al pubblico. Il ring però, luogo con spazi ben definiti dalle corde che lo delimitano, permette ai performer di essere loro stessi, attraverso un progressivo adattamento rispetto all’esterno, che culmina in un urlo finale in cui insito vi è un senso di libertà, serenità, scioltezza e felicità.

La «Nonjudgemental mindfulness», costrutto che proviene dalla corrente americana «Mindfulness», esprime questo senso di condivisione non giudicante che si sviluppa in maniera dolce all’interno della performance, scandita da tempi dettati dal gong e dall’oscurità che pervade tutti nel passaggio da un atto all’altro.

Parallelamente il gruppo di performer si spoglia – in maniera letterale e metaforica – dei possibili giudizi instaurando con il pubblico un patto d’alleanza in cui a contare sono i fatti e non solo le semplici «parole, parole».

L’intercalarsi delle scene sembra suggerire come l’atteggiamento di giudizio limiti le opportunità, la conoscenza di noi stessi e degli altri, che solo con gli occhi puri, disillusi e privi di giudizio di un bambino, si possa arrivare alla verità.

Alla fine tra il pubblico e i performer si crea un gruppo in cui, come diceva Bion: «si sviluppa un’esperienza sensoriale, affettiva, emotiva, prima ancora che cognitiva, condivisa da tutti i membri».
Che sfocia nella mentalità di gruppo.

Lo spettacolo fa il suo esordio con la presenza di due attori mascherati da topo. Quest’avvio fa presagire allo spettatore quello che poi sarà il significato finale.

Partendo proprio da quella «maschera» si apre un mondo, il nostro mondo, caratterizzato da persone che non riescono ad essere loro stesse, che devono nascondersi. Luigi Pirandello stesso ci ricorda che dietro queste maschere, dietro queste etichette, si celano delle persone.

Nella performance questo può essere notato nei “topi” inizialmente ballerini, poi pugili e nei pugili poi ballerini. Parlando di etichetta, possiamo citare lo «stigma» introdotto da Erving Goffman, ovvero un attributo screditante che sminuisce profondamente l’individuo per vari aspetti, che possono essere fisici, caratteriali o semplicemente riducibili all’appartenenza culturale.

Lo stigma può essere «difeso» attraverso la Labelling Theory, secondo la quale nessun comportamento è deviante o sbagliato, ma lo diviene nel momento in cui viene interpretato come tale da altri. Questo fa sì che le persone etichettate interiorizzino quell’interpretazione sino a sentirla parte della propria identità, generando una sorta di profezia che si autoavvera.

Nello spettacolo questo «etichettamento» sparisce in un crescendo di momenti a partire dai topi che si tolgono la maschera e sfoggiano i loro costumi appariscenti, sino ad arrivare al momento clou della performance, in cui le luci, la musica e l’atmosfera cambiano, ognuno è libero di esprimersi come vuole e di essere ciò che vuole.
Tutti i pregiudizi cessano di esistere.

Di:
Donato Gabriele Cassone
Giulia Concetta Celeste
Laura Raneri

Questo articolo fa parte della rubrica

Leave a Reply

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.