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Sempre meno danzatori oggi scrivono e questo è un problema. Dominique fa una profonda riflessione nel testo “Danzare oltre” sulla necessità della scrittura; la danza è una poetica, è quello che la poesia è per la letteratura. La storia della danza non basta a costruire un discorso sulla danza, può al massimo costruire un repertorio di eventi. […] Occorre dunque che i danzatori parlino e scrivano.

E. Anzellotti, L’artista vivente come fonte e archivio della danza, In «Danza e Ricerca», Speciale La danza nei dottorati di ricerca italiani: metodologie, saperi, storie. Giornate di studioa cura di Stefania Onesti e Giulia Taddeo [https://danzaericerca.unibo.it/issue/view/483]

Apriamo la seconda edizione della rubrica di Humus dedicata al FIC Fest con questo frammento che vede come protagonista il pensiero di Dominique Dupuy che vogliamo omaggiare dopo la sua recentissima scomparsa. Custodiamo nel cuore e nella mente l’idea dello storico danzatore del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, sull’importanza della scrittura del danzatore in quanto artista-pensatore.

Il nostro obiettivo è restituire racconti di esperienze con l’inserimento di esercizi di visione più analitici. Potrete leggere quindi RACCONTI LATERALI soggettivi, interrogativi sulle percezioni personali, vissuti di corpi permeabili, conviventi a BOX VISIONI, allenamenti dello sguardo e del pensiero critico sugli spettacoli in programma.

La parola è concessa alle danzatrici e ai danzatori del primo anno del corso di formazione MoDem Atelier che costruiranno una storia di questo festival contribuendo al fissaggio della memoria e alla formazione del nostro archivio corrente.

Elena Elisa Alessia Alice Marta Krystian Emily Giada Francesco

3 MAGGIO – il primo giorno

THE SWAN’S ROAD

Per inaugurare la quinta edizione del FIC Festival, le strade principali di Catania sono state inondate da un fiume bianco danzante. Oltre cento partecipanti, tra danzatori e amatori, si sono esibiti in una parata urbana, percorrendo la via Etnea, cuore di Catania, da Piazza Stesicoro fino a Piazza Duomo, accompagnati ai lati da tutti coloro che, ammaliati, restavano a guardare la performance seguendone l’avanzata.
The Swan’s Road è il titolo del progetto a cura del Collettivo SicilyMade, diretto da Simona Miraglia, Amalia Borsellino, Marta Greco e Silvia Oteri. Il concept si è basato sul famoso assolo La morte del cigno (1905) di Michel Fokine reinterpretando in modo innovativo e provocatorio i movimenti della danzatrice Anna Pavlova, coinvolgendo allo stesso tempo la città e facendo risuonare per le sue vie il brano musicale della coreografia composto da Camille Saint-Saëns. Inoltre, essendo un’importante piéce di repertorio classico, richiama in pieno il tema principale del festival.
Il Collettivo SicilyMade è un gruppo aperto ad artistə indipendenti che unisce danza, teatro e arti visive e pone «L’arte al centro di una trasformazione responsabile della società» (Michelangelo Pistoletto).  

Questa incursione urbana ammaliante, energetica e inclusiva ha destato l’attenzione di molte persone, desiderose di ricevere dallo staff il volantino con l’intero programma del festival e informazioni su ciò che stesse accadendo davanti ai loro occhi.  
(di Alice D’Urso)

foto di Serena Nicoletti

INSTRUMENT JAM

Instrument Jam è stato presentato in scena per la prima volta nel 2017, ispirandosi al precedente Instrument I – scoprire l’invisibile del 2007. La riformulazione e rimessa in azione dello spettacolo nei diversi anni, dal 2007 al 2017 e dal 2017 ad oggi è esempio di trasmissione del repertorio contemporaneo, sempre in evoluzione, della compagnia. La quinta edizione del Festival si articola intorno al tema specifico del Recupero, della tutela del repertorio contemporaneo e della valorizzazione delle radici creative. In linea con il tema abbiamo, così, visto Instrument Jam di Roberto Zappalà con un cast di nuovo aggiornato.

Entriamo nel cuore della produzione parlando direttamente con quattro danzatori, Erik Zarcone e Filippo Domini in rappresentanza del nuovo cast, Roberto Provenzano e Salvatore Romania in rappresentanza del cast originario.

foto di Emily Busalacchi

L’INTERVISTA

Con l’aggiunta di un nuovo cast è cambiato qualcosa nel linguaggio e nei vostri rapporti interpersonali?

Salvatore Romania: L’energia cambia e cambia sempre, ogni volta che il gruppo si rivede dopo tempo. Ciò che ci accomunava era di tornare al centro, cioè da dove tutto è nato. Ogni esperienza personale inevitabilmente e inconsapevolmente apporta delle modifiche allo spettacolo perché il corpo cambia e migliora anche la sua gestione. Cambia qualcosa, ma non l’essenza. Parlando di rapporti interpersonali, a livello professionale ciò che non manca mai è il rispetto. Ci sono delle affinità, durante lo spettacolo le amicizie si vivono più intensamente e si instaura una grande complicità. Ognuno di noi però è responsabile non solo di sé stesso ma anche e soprattutto del contenitore comune; l’obiettivo infatti non è quello di scavalcare gli altri per primeggiare, quanto invece fare bene per arricchire il contenitore all’interno del quale sono compresi tutti gli altri.

Considerato che Instrument Jam è un lavoro del 2017, avete notato un cambiamento nel vostro modo di porvi a dei codici di movimento diversi da quelli delle ultime produzioni?

Erik Zarcone: Instrument Jam ha una teatralità molto indirizzata e specifica, che si discosta tanto, secondo me, da quello che oggi è il lavoro della compagnia. La linearità che si ricerca oggi è molto distante da questo lavoro; dunque, a livello fisico o tecnico può risultare semplice approcciarsi al lavoro, ma una teatralità cosi importante potrebbe perdere di significato se non si riesce ad arrivare. È lì che c’è la sfida: scoprire qualcosa di bello in un corpo non abituato a questa teatralità.
Ho trovato più difficile entrare in un’energia che era già ben consolidata in un gruppo formato e che aveva un gioco comune difficile da sostenere all’inizio. È stato comunque molto interessante assaporare quello che c’era prima rispetto a ciò che c’è adesso.

Filippo Domini: Per me è stata una sfida. Indubbiamente fisicamente sono diverso dal prototipo dei danzatori presenti nel cast originale di Instrument Jam. Io penso che il corpo in sé possieda una propria drammaturgia e per questo è stata una sfida raggiungere quella appartenente al pezzo avendo un corpo non del tutto affine all’idea originale. Quello che mi affascina della danza è riuscire a trasformarsi e ad essere sempre tante cose diverse.

Dopo diversi anni, come ti senti rispetto al concept del pezzo?

Roberto Provenzano: Nonostante il pezzo sia lo stesso noi non siamo gli stessi. I movimenti sono i medesimi e si deve essere fedeli alla coreografia originale e a quello che il coreografo vuole o ha voluto. La nostra evoluzione personale, tuttavia, dà valore al pezzo. Si tratta di una linea sottile, poiché ciò che è possibile apportare al pezzo non deve cambiare o stravolgere l’idea originaria.

Salvatore Romania: La coerenza proviene dal fatto che è sempre presente una parte intellettuale che spinge a voler scavare ancora di più. Più sperimentiamo con l’intenzione, più in scena il pubblico percepisce come se stessimo solo scherzando. Questo è affascinante. È importante marcare l’idea di dover scavare sempre di più in quanto non c’è mai una fine, e solo questo ti da la possibilità di crescere.

Le esperienze lavorative e non che si sono succedute nel corso della tua vita hanno influito sulla tua resa? Se sì, come?

Filippo Domini: Per me molto perché all’interno della drammaturgia ci sono tante cose che mi ricordano esperienze vissute da ragazzino, come quando si giocava nei quartieri o l’atteggiamento un po’ spocchioso.

Erik Zarcone: Per me è stato interessante quando una volta Roberto chiese ai suoi danzatori di andare in giro per la città ad osservare le persone. Questo mi ha aiutato molto perché quando ho approcciato questo pezzo, dove c’è una gestualità palese e molto radicata nella società siciliana, per me è stato più semplice osservare all’esterno e capire la semplicità di determinati gesti che per me potevano sembrare qualcosa di lontano, poiché provengo da un’altra regione con altri modi di approcciarsi agli altri, e invece mi sono reso conto di come fossero gesti attinti dalla quotidianità.

In che modo le esperienze lavorative e non che hai avuto nel corso degli anni hanno cambiato la tua visione della coreografia?

Roberto Provenzano: L’esperienza personale conferisce al tuo ruolo una sicurezza maggiore; con il passare degli anni ognuno di noi matura intellettualmente, ballettisticamente e mentalmente, dunque oltre la coscienza e coerenza di ciò che si fa, si è più efficienti. Lo spettacolo viene sempre ristudiato, viene approfondito e perfezionato e diventa per noi stessi sempre più perfetto. A livello personale ed emotivo è presente uno spirito di amicizia nel ritrovarsi con quel vecchio gruppo di amici con il quale si sono condivise esperienze che hanno formato il gruppo stesso. Il gruppo ha tralasciato nel tempo la voglia di primeggiare sull’altro, si tratta adesso di un’atmosfera più sana e meno competitiva. Maturando, infatti, ho capito che è importante dare forza al movimento degli altri, attraverso lo sguardo e l’intenzione si dà importanza agli altri come se vi fosse puntato un riflettore su di loro. Nel tempo abbiamo capito che si tratta di un pezzo che ha bisogno di tanta personalità e sicuramente le esperienze personali hanno fatto si che ognuno di noi abbia vissuto lo spettacolo ogni volta con una tranquillità maggiore, senza però dimenticarsi della responsabilità di portare in scena uno spettacolo di qualità.

(di Marta Scalia)

RACCONTI LATERALI – appunti visivi

Il Catania Contemporanea/Fic Festival 2024, acronimo di Focolaio di Infezione Creativa, prende avvio all’interno dei suggestivi spazi del Teatro Sangiorgi dove torna in scena uno degli spettacoli della Compagnia Zappalà Danza maggiormente circuitato nel mondo. Instrument Jam vede in scena sette danzatori, Adriano Coletta, Filippo Domini, Roberto Provenzano, Antoine Roux-Briffaud, Fernando Roldàn Ferrer, Salvatore Romania ed Erik Zarcone. Il cast, totalmente al maschile, danza accompagnato da un marranzano (Puccio Castrogiovanni), un tamburo (Arnaldo Vacca) e un hang (Salvo Farruggio), suonati dal vivo.

Il concept dello spettacolo è basato sull’interpretazione dell’arroganza tipica dell’uomo siciliano, che traccia il confine con la volgarità senza però essere oltrepassato. Tra luci soffuse, silenzi interrotti da voci maschili intense e vibranti e rumori indistinti, sono stata catapultata all’interno di un mondo ipnotico e al tempo stesso del tutto tangibile. La coreografia mostra, infatti, numerose immagini reali e familiari per coloro che vivono la Sicilia; credo sia possibile riconoscersi in determinati atteggiamenti e modi di fare.

Le parole pronunciate dai danzatori, il rumore dei tacchi, i sospiri e le cantilene hanno generato nell’insieme una sorta di tappeto musicale che ipnotizza e diverte al tempo stesso lo spettatore.
Risulta ai miei occhi evidente il ricorso all’ironia, che strappa un sorriso attraverso immagini evocative e a tratti bizzarre, e al contempo, ne induce una riflessione. La mascolinità è sicuramente un punto cardine della pièce, tangibile dall’interpretazione, dai suoni vocali emessi. In una scena topica sei danzatori, invadendo la scena senza vestiti, si sono mostrati pieni di sé, vanitosi e ammiccanti.
Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla complicità dei danzatori stessi, data dagli sguardi e dalle urla reciproche che li spingevano ad assumere contemporaneamente e indistintamente atteggiamenti di sfida e di intesa, tra di loro e verso il pubblico. La scelta di collocare i musicisti alle spalle della scena – rivestita da teli di pizzo bianco semitrasparente – ha creato una magica atmosfera che mi ha permesso di percepire vibrazioni e sensazioni straordinarie. Particolarmente emozionante è stato per me il monologo intrattenuto in lingua spagnola da uno dei danzatori, Fernando Roldàn Ferrer il quale, attraverso un’intonazione pacata e coinvolta, ha spiegato come il corpo sia uno strumento importante includendo argomenti di natura politica e culturale menzionando specialità locali, personaggi famosi, uomini mafiosi e caritatevoli.

È stato un momento estraniante e riflessivo che ha catturato totalmente la mia attenzione e mi portata con l’immaginazione in luoghi sconosciuti. Del tutto coerente, inoltre, è stata per me la scelta di riprodurre in scena gestualità tipiche dell’uomo catanese che, attraverso movimenti piccoli e veloci, provoca il pubblico e tenta di intimidirlo. Nel complesso ritengo che la produzione sia lineare e chiara nel suo intento e che danzatori e musicisti siano ottimi interpreti ed eccellenti professionisti. Instrument Jam regala emozioni, diverte e ipnotizza.

(di Marta Scalia)

regia e coreografia: Roberto Zappalà | musica originale (live): Puccio Castrogiovanni | danza e collaborazione: Adriano Coletta, Filippo Domini, Roberto Provenzano, Antoine Roux-Briffaud, Fernando Roldan Ferrer, Salvatore Romania, Erik Zarcone | ai marranzani (scacciapensieri): Puccio Castrogiovanni | tamburi: Arnaldo Vacca | hang: Salvo Farruggio | testi: Nello Calabrò | luci, scene e costumi: Roberto Zappalà | una produzione: Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza – Centro di Rilevante Interesse Nazionale | con il sostegno di: Ministero della Cultura e Regione Siciliana Assessorato del Turismo, Sport e Spettacolo

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